Il Mago di Arcella: Quel testamento che non è un testamento. E il dubbio che la mano fosse d’altri. L’ingiustizia si consuma in silenzio.
di: Lorena Fantauzzi

Che cos’è un testamento? Un testamento è un grido oltre la morte.
È il sigillo finale che l’uomo imprime sulla propria volontà, un atto di sovranità e di solitudine, che parla per lui quando più non può parlare.
Ma il foglio che reca in alto la dicitura “Atto di dichiarazione”, firmato da Antonio Battista, conosciuto come Il Mago di Arcella, non è nulla di tutto ciò.
È una farsa. Un’impostura. Una sceneggiatura scritta con l’odore dell’inganno e la complicità del silenzio.

Il 3 ottobre 2017, in uno studio notarile di Velletri, si apre una busta chiusa. Dentro, la presunta “scheda testamentaria” di Antonio Battista, il Mago di Arcella, uomo ormai morto da cinque anni. Dattiloscritta, non olografa. Non ci sono ultime volontà che dispongano del patrimonio per il tempo in cui egli non sarebbe più stato. C’è solo un racconto – nemmeno troppo coerente – di ciò che sarebbe già accaduto in vita. Nessun “lascio”, nessun “nomino erede”, nessun “voglio che”. Solo un ammasso di dichiarazioni autocelebrative e confusamente ricostruttive, che hanno più il sapore del memoriale scritto a quattro mani che del testamento solitario e intimo dell’uomo in fin di vita.

Ma la parte più inquietante viene prima ancora della pubblicazione. Già nel 2016, un anno prima che il notaio rivelasse il contenuto della busta, i figli di secondo letto di Antonio Battista – Giovanni e Antonella – ne parlano nei loro atti giudiziari con dovizia di dettagli. Citano fatti, donazioni, cifre, località. Come se lo avessero letto. O peggio: come se lo avessero scritto loro.

Come ne conoscevano i contenuti? Non è dato sapere. O meglio: è dato sospettare.
Che il testamento sia stato da loro compilato? Non ci è dato accusare, ma ci è concesso dubitare.
E il dubbio qui non solo è legittimo. È doveroso.

Perché Antonio Battista, Il Mago di Arcella, quando avrebbe firmato quel testamento non era lucido. Lo dicono i certificati medici, lo dicono le diagnosi sanitarie: già nel 1994 era affetto da amnesia senile.

Nel 2008 e nel 2009, a ridosso della redazione dell’“atto di dichiarazione”, era in preda a crisi ansioso-depressive, disturbi cognitivi e reazioni di disadattamento. Un uomo fragile. Suggestionabile. Confuso. Che firmava, forse, senza capire, dopo che aveva subito diversi ictus e non riusciva neanche a parlare.

Che diceva, forse, ciò che altri volevano sentir dire.

E allora, se è vero – come pare essere vero – che la scheda testamentaria non dispone nulla per il tempo post mortem, che non attribuisce alcun bene a nessuno, che non nomina eredi e non detta volontà successorie, non è un testamento. È un’ombra. Un falso amico. Un trucco per far credere ciò che non è.

Perché in diritto, come nella vita, non conta solo ciò che si dice, ma perché e quando lo si dice. E se lo si è detto davvero.

C’è qualcosa di amaro e profondamente ingiusto in questo documento che si è voluto chiamare “testamento”. Amaro come l’odore della ceralacca spezzata. Ingiusto come l’idea che un uomo debole possa essere usato per privare altri del loro diritto. Ma chi ha occhi per leggere e cuore per ricordare, saprà distinguere la verità dal trucco. E la giustizia, prima o poi, busserà. Anche alle porte ben chiuse, per la tutela dei diritti di Gloria Battista, figlia di primo letto del Mago di Arcella, praticamente diseredata dal padre e a sua insaputa.

Inoltre, l’ingiustizia si consuma in silenzio. Non grida. Non urla.

Non si dispera, Gloria Battista, figlia legittima e disillusa. È solo amareggiata. Ma non un’amarezza leggera, di quelle che passano col tempo o si sciolgono in un pianto.

La sua è l’amarezza acre di chi assiste, impotente, a un tradimento dello spirito della giustizia.

È l’amarezza di chi ha gridato, ma nessuno ha voluto ascoltare.

Il testamento di Antonio Battista – che testamento non è – è stato battuto a macchina, come un comunicato anonimo, come un foglio prodotto in catena da una segretaria stanca.

Firmato da un uomo che, con ogni verosimiglianza, non lo ha nemmeno letto.

Un uomo malato. Un uomo smarrito, aggredito da un’amnesia senile che lo spogliava della memoria come un ladro notturno spoglia una casa vuota.

Era ancora lui? Era capace di intendere? Era davvero consapevole di ciò che stava firmando? Gloria, figlia sua, se lo chiede ancora oggi. E lo ha chiesto al giudice. Lo ha documentato. Lo ha provato.

Eppure è stata lei a essere sottoposta a interrogatorio formale. Lei, non chi ha prodotto quella scheda dattiloscritta. Lei, non chi – forse – ha messo quel foglio nelle mani del padre, facendoglielo firmare come si fa con le carte della badante.

Un paradosso? No. Una violenza processuale travestita da normalità. E questa, in Italia, fa più paura delle urla.

Ma la storia non finisce qui.

Il prossimo 4 giugno 2025, la Corte d’Appello di Roma non ascolterà nessuno. Nessuna voce, nessuno sguardo, nessuna emozione.

La causa non si celebrerà in aula. Non ci sarà un confronto, non ci saranno domande, non ci sarà la carne viva della giustizia. Ci sarà solo carta. Le famose “note scritte”. Scritte da chi ha la penna e il computer, non da chi ha il dolore.

È stato il Presidente della Sezione a disporre questa trattazione per iscritto.

Una scelta tecnicamente legittima, certo. Ma umanamente devastante. Perché a Gloria è stato negato l’unico diritto che la rende ancora parte di questo processo: il diritto di parlare. Di guardare in faccia i giudici. Di dire: «Mio padre non era più lui. E quel foglio non è la sua volontà».

In un’aula della Corte d’Appello di Roma si deciderà la sorte degli uomini.

E il silenzio imposto può essere più violento di mille grida. La giustizia che tace, che si cela dietro le scartoffie, che rinuncia all’udienza come se fosse un fastidio, non è giustizia. È burocrazia. È viltà.

Gloria, oggi, si sente come l’Italia: tradita.

Da un sistema che finge di essere imparziale, ma che spesso premia chi ha la voce più forte e le mani più lunghe. E lei, figlia vera di un padre vero, resta sola con la sua amarezza. Come una sentenza già scritta, senza nemmeno un appello da gridare.

“Ci sono momenti in cui tacere diventa una colpa. E parlare diventa un dovere.”

Oggi, per Gloria, denuncio che il diritto è senza voce, è solo una trappola elegante. E la giustizia, senza ascolto, è una farsa nuda.

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