Lil’Flame: voce e fuoco della periferia romana
Cresciuto tra le strade di Tor Bella Monaca, quartiere-simbolo della periferia est di Roma, Joseph Gagliardi, in arte Lil’Flame, è oggi una delle voci più autentiche della scena rap italiana. Con 24 progetti all’attivo — tra album e mixtape — e collaborazioni con artisti di primo piano come Gemitaiz, ha costruito un percorso artistico coerente, radicato nella realtà ma sempre proiettato verso il futuro. La sua musica è un diario aperto, in cui sogni, errori, traguardi e difficoltà si intrecciano per raccontare il vissuto di una generazione troppo spesso dimenticata.
In questa intervista ci racconta la sua storia, la sua visione e il significato profondo della sua arte.
Origini e identità
- Come nasce Lil’Flame? Ci racconti i tuoi primi passi nel mondo della musica e da dove viene il tuo nome d’arte?
– Il mio nome d’arte nasce dal periodo in cui mi avvicinai al mondo dei graffiti. Nel 2008 iniziai a registrare i primi demo in casa, dopo un paio d’anni sono andato per la prima volta in studio da “3D”,
da li in poi ho iniziato a frequentare le serate hip-hop in giro per la città dove ho potuto conoscere i migliori esponenti della scena romana come “Gemitaiz, Noyz Narcos, Coez, Rancore, Primo (R.I.P.)” e tanti altri.
- Crescere a Tor Bella Monaca ti ha influenzato profondamente. In che modo questo quartiere ha plasmato la tua visione del mondo e la tua musica?
– Ho un forte senso d’appartenenza verso questo quartiere anche se le mie influenze sonore provengono dagli Stati Uniti, cerco di riportare in rima le storie di periferia nostrane sia in prima persona ma anche da una prospettiva esterna un po’ come un narratore fuori campo.
- Quali sono stati i tuoi primi riferimenti musicali e artistici? C’è stato un momento preciso in cui hai capito che il rap sarebbe stato la tua strada?
– Fin da piccolo mi sono appassionato alla musica black visto che mia madre ascoltava “Michael Jackson e the Fugees” ma ho scoperto il rap grazie alla canzone “My Name Is” di “Eminem”, dal 2000 in poi è stata un’escalation non avevo ancora internet e con i soldi della paghetta compravo poster e cd di tutti i rapper che riuscivo a trovare, probabilmente è dal quel periodo che ho scelto di diventare un rapper.
Percorso artistico
- Hai pubblicato 24 lavori, tra cui 4 album e 20 mixtape: un numero impressionante. Come riesci a mantenere
questa costanza produttiva?
– Onestamente non sò come faccio ad essere così produttivo, ma se devo trovare una spiegazione possiamo dire che vedo ogni mio disco come una sorta di diario con cadenza annuale, dove cerco di fare un mio resoconto delle esperienze vissute nell’anno corrispondente al disco.
- La tua musica è molto personale. Quanto c’è di autobiografico nei tuoi testi e quanto invece è ispirato dalle storie degli altri?
– Direi un 70 percento autobiografico e il restante 30 ispirato da storie altrui e dalla cultura pop degli anni ’90 e del primo decennio del 2000, dalle fonti dove traggo ispirazione mi ci rispecchio a tal punto che sento la necessità di raccontarlo su una canzone.
- Alcuni dei tuoi brani vedono la collaborazione con nomi importanti come Gemitaiz. Com’è nata questa collaborazione e cosa hai imparato da questi confronti artistici?
– La collaborazione con “Gemitaiz” è nata in maniera molto spontanea e naturale, nel 2010 stavo preparando il mio primo disco “UnderCover Mixtape” presso il Bunker Studio di “3D”, e ho chiesto a Gemitaiz se voleva farmi una strofa per il disco e lui ha accettato con molto piacere. In questo progetto oltre gli amici con la quale ho iniziato compaiono anche altri della scena dell’epoca.
Da queste esperienze come naturale che sia magari ci siamo tutti influenzati a vicenda per il solo amore verso questa musica, ben prima che le collaborazioni diventavano mosse di marketing.
Temi e messaggi
- Nelle tue canzoni parli di sogni, ambizioni, errori e traguardi. Qual è il messaggio più importante che vuoi trasmettere con la tua musica?
– Cerco di trasmettere un messaggio di resilienza urbana riscatto e redenzione personale, e di fare rispecchiare i ragazzi nelle mie storie farli entrare nel mio mondo sperando non commettano i miei stessi sbagli.
- Pensi che il rap oggi abbia ancora una funzione sociale?
– Ad oggi senza dubbio il rap ha una forte esposizione mediatica rispetto al 2000, e proprio per questo ha una maggiore influenza sulle nuove generazioni, ma sono fermamente convinto che l’arte deve essere libera anche per i colleghi definiti “criminali” (magari per qualche errore), senza che quest’ultimi devono prendersi la responsabilità di educare la nuova generazione, è un compito che spetta ai genitori spiegare che la musica è arte e non bisogna prendere alla lettera ciò che viene raccontato nelle canzoni.
Rap e società
- Come vedi l’evoluzione della scena rap italiana negli ultimi anni? Cosa pensi manchi, oggi, a questo panorama musicale?
– Sicuramente è cresciuta in maniera esponenziale tramite la maggiore richiesta da parte dei media e la facile reperibilità della musica, questo a mio parere è sia un bene che un male un’arma a doppio taglio perché dove c’è tanta bellezza si nasconde altrettanto squallore in un’ambiente già saturo.
Penso serve un po’ più spazio agli artisti indipendenti e non solo a quelli spinti da chissà chi.
E’ nei bassifondi che si trova la grande bellezza.
- Credi che la musica possa davvero cambiare il destino di un ragazzo di periferia?
– Se davvero l’artista crede in se stesso e qualcuno gli dà le giuste opportunità può davvero cambiare la sua vita.
Futuro
- Dopo 24 progetti, dove ti vedi artisticamente tra cinque anni? Hai un sogno nel cassetto che ancora non hai realizzato?
– Spero davvero di essere notato per la mia musica ma anche che la gente inizi a capire il significato della mia arte,
il sogno da realizzare oltre a fare della mia passione un lavoro sarebbe magnifico riuscire a collaborare con un grande come Marracash.
- È già uscito il tuo nuovo album, ce ne parli?
– “STREET MESSIAH” è un disco che non chiede il permesso, ma si prende lo spazio che gli spetta.
Chi ama la trap italiana con radici forti nella realtà troverà in me non solo un artista, ma un profeta metropolitano.
E’ un viaggio crudo e intenso dentro l’anima urban della Capitale, dove si mescolano storytelling di strada, spiritualità urbana e dichiarazioni di resilienza.
Il disco composto da 17 tracce registrate al Not Found Lab sotto la supervisione di Dr. Wesh (che ringranzio infinitamente per la guida artistica del disco)
è un concentrato di realismo senza filtri.
Già dall’intro si avverte la mia volontà di pormi come punto di riferimento per una generazione che cerca redenzione tra beat taglienti e ritornelli viscerali.
a cura di: Lorena Fantauzzi
Views: 0