Ricevo e pubblico codesto COMUNICATO STAMPA

“Detenuti malati dimenticati dallo Stato: il caso di Bellinato Albano Bruno e la condanna della CEDU all’Italia per violazione del diritto alla salute”

Roma, 12 aprile 2025 —
In un’Italia sempre più distante dai principi costituzionali di umanità e dignità, continuano a moltiplicarsi i casi di detenuti gravemente malati ai quali viene negato il diritto a cure adeguate, in aperta violazione dell’art. 32 della Costituzione e delle norme dell’ordinamento penitenziario. I Tribunali di Sorveglianza, nonostante l’esistenza di copiosa documentazione medica e giurisprudenza a sostegno, troppo spesso si ostinano a rigettare le istanze di differimento pena o di detenzione domiciliare, causando conseguenze drammatiche, se non addirittura mortali.

Uno degli ultimi casi emblematici è quello di Bellinato Albano Bruno, assistito dall’avvocato Guendalina Chiesi con il supporto dell’associazione Quei Bravi Ragazzi Family Onlus di cui è vicepresidente. Un uomo con un quadro clinico gravissimo, certificato da consulenze medico-legali di parte e relazioni sanitarie ufficiali: ipertensione, fibrodisplasia ossificante progressiva, dispnee, apnee notturne e alterazioni pressorie che pongono a serio rischio la sua stessa sopravvivenza. Un detenuto che ha trascorso sei mesi di ricovero in ospedale, dal 29 ottobre 2024 al 10 aprile 2025 presso l’Ospedale Belcolle di Viterbo, per poi essere trasferito in un centro clinico penitenziario — segnale evidente della incompatibilità con il regime carcerario intramurale.

Eppure, nonostante ciò, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza, sostenendo l’assenza di condizioni di salute che giustificherebbero una misura alternativa alla detenzione. Una decisione che grida giustizia alla luce non solo della condizione clinica, ma anche dell’assoluta assenza di pericolosità sociale del detenuto. Bellinato sta scontando una condanna per un fatto risalente al 2006, relativo ad un reato non ostativo (ricettazione, art. 648 c.p.) con un residuo pena inferiore a un anno. Peraltro, l’uomo aveva già beneficiato della detenzione domiciliare ai sensi della legge 199/2010, interrotta solo per il sopraggiungere di un nuovo definitivo per un fatto commesso quasi vent’anni fa. Nessuna urgenza sociale che giustifichi una carcerazione, tanto più alla luce del suo stato di salute.

Il rigetto ha avuto anche pesanti ripercussioni familiari: la sua compagna, Alexia Pacella, è svenuta per lo stress subito dopo aver ricevuto la notizia. Il ricorso per Cassazione è stato tempestivamente proposto dall’avv. Chiesi, nella speranza che finalmente la giustizia riconosca ciò che la medicina ha già dichiarato in modo inequivocabile.

Purtroppo, il caso di Bellinato non è isolato. Numerose sono le morti per malasanità in carcere, spesso denunciate anche dalla associazione Quei Bravi Ragazzi Family. È il frutto di una giustizia che compie un bilanciamento errato tra esigenze punitive e diritto alla salute, dimenticando che l’articolo 32 della Costituzione tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e che la detenzione non può trasformarsi in una pena di morte indiretta.

A sostegno delle denunce presentate dalla associazione Quei Bravi Ragazzi family arriva anche la recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Giuseppe Morabito (U Tiradrittu) c. Italia, con cui l’Italia è stata condannata per non aver garantito cure adeguate e per non aver concesso misure alternative nonostante l’incompatibilità del detenuto con il regime carcerario. La CEDU ha richiamato l’Italia a rispettare gli standard minimi previsti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e in particolare l’art. 3, che vieta trattamenti inumani e degradanti.

Anche la Corte di Cassazione, con diverse pronunce (Cass. Pen., Sez. I, n. 13438/2021; Cass. Pen., Sez. I, n. 12191/2023), ha sottolineato che il giudice di sorveglianza non può ignorare relazioni mediche dettagliate e deve motivare adeguatamente ogni rigetto, dando prevalenza alla tutela della salute e della dignità umana. In troppe occasioni, invece, si assiste ad una sistematica sottovalutazione delle condizioni sanitarie del detenuto, quasi come se la malattia fosse un aggravante e non un presupposto per una tutela maggiore.

L’auspicio è che il caso di Bellinato Albano Bruno non diventi l’ennesima tragedia annunciata. Che finalmente la giurisprudenza si adegui non solo alla legge, ma anche al senso di umanità e giustizia sostanziale. E che venga rispettato l’ordinamento penitenziario che consente — anzi, impone — al giudice di sorveglianza di concedere il differimento della pena o la detenzione domiciliare quando sussistono gravi problemi di salute, anche in assenza di patologie terminali.

Chiediamo che l’Italia applichi coerentemente le sentenze della Corte Europea, rispetti la propria Costituzione e dia finalmente voce e dignità a chi, pur detenuto, resta prima di tutto una persona. Bellinato ha diritto a curarsi. Ha diritto a vivere. Ha diritto a essere trattato con umanità. E la giustizia ha il dovere di garantire tutto questo.

Da: Alexia Pacella

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